Nel 1628 la
presenza dei Padri Camaldolesi a Madonna di Campagna era consistente:
sette erano i frati che officiavano la messa più altri
undici e un converso sempre disponibili al servizio della chiesa. In
quegli anni anche i fedeli crescevano di numero così che fu
concesso ai monaci di occupare le sale precedentemente destinate ad uso
esclusivo dei Governatori.
Fu proprio in quel periodo fiorente per il monastero che la
città di Verona dovette affrontare un terribile flagello:
l’epidemia di peste del 1630 che mietè vittime in
tutte le città più importanti d’Europa
e che in Italia prese il nome di “Gran Contagio”.
Non vi è traccia di cronaca che indichi se i Padri
Camaldolesi fossero interessati al “Gran Contagio”:
essi furono probabilemente soltanto spettatori e vittime. Nel 1628
infatti a Verona, più precisamente al Pestrino di Porto San
Pancrazio, era stato completato il lazzaretto. I lavori per
la sua edificazione erano iniziati ben 80 anni prima, ma la loro
conclusione a soli due anni prima dall’esplosione del
contagio si rivelò provvidenziale.
La storia narra che ad introdurre la peste a Verona fu un soldato, tale
Francesco Cevolini, che portava con se’ delle vesti rubate o
comprate a dei “soldati alemanni”, con ogni
probabilità i Lanzichenecchi, mercenari austriaci, che per
primi portarono la peste nella Penisola. Di loro parla anche Alessandro
Manzoni nel suo più celebre romanzo. Alla diffusione del
morbo bastava anche solo il contatto con le vesti dei contagiati; fu
così che in breve tempo la peste si diffuse rapidamente
anche nei dintorni della città al punto che Venezia,
seriamente preoccupata, mandò a Verona il cavaliere Aloise
Vallaresso che, una volta accertatosi che si trattasse di peste, aveva
il compito di emanare una serie di provvedimenti atti ad arginare il
diffondersi del morbo. Nonostante la correttezza delle misure adottate,
la mortalità raggiunse un livello impressionante; il medico
Francesco Pona nel suo “Gran Contagio di Verona”
del 1631 rilevò che nella città morirono 33.000
persone su una popolazione di circa 54.000 abitanti. Egli descrisse
accuratamente tutte le fasi della pestilenza la cui gravità
fu tale che ad un certo punto, essendo il lazzaretto pieno, i morti
venivano abbandonati sull’Adige.
Il Pona sottolinea come monasteri e religiosi patirono particolarmente
al tempo della peste; essi infatti venivano abbandonati alla loro
povertà dai medici della zona, decimati anch’essi
dall’epidemia. La stessa sorte subirono le Benedettine di San
Michele (di 50, dopo la peste, ne rimasero 26) e con ogni
probabilità anche i Padri di Madonna di Campagna.
La peste, che durava da maggio, terminò, così
come era cominciata, nel settembre dello stesso anno lasciando dietro
di sè miseria e povertà e permettendo al
monastero di riprendere la sua attività. Era allora priore
il monaco Apollonio.